Fondato nel 1929 con il nome di Unione Sportiva Catanzarese, l’undici giallorosso sale agli onori della cronaca negli anni Sessanta, quando i calabresi veleggiano nel campionato cadetto. In particolare, nel 1966, il Catanzaro scrive una pagina incancellabile andando a vincere 2-1 in casa della Juventus nella semifinale di Coppa Italia. È un’impresa storica, come storica è la finalissima disputata all’Olimpico di Roma contro la Fiorentina: il pronostico viene ampiamente rispettato, con i viola che alzano al cielo il trofeo. Ma lo fanno solamente dopo i tempi supplementari e con una risicata vittoria per 2-1: il momentaneo pareggio dei calabresi lo firma Pippo Marchioro, in seguito allenatore di calcio che oggi ha fatto di Camaiore e della Versilia la sua dimora.
Quel traguardo inimmaginabile esalta in qualche modo il sobrio ambiente giallorosso, più attento a guardarsi le spalle dalla retrocessione in Serie C che non a sognare il massimo campionato. È con lo stesso animo che la squadra affronta la stagione 1970-71, conclusa con l’inattesa qualificazione agli spareggi per salire lassù, nell’Olimpo del calcio nostrano. Si gioca tutto nella sfida contro il Bari sul campo neutro del San Paolo di Napoli: a decidere questo scontro tra meridionali è un gol dell’attaccante reggino Angelo Mammì. Pure questo è un evento da consegnare agli annali: mai la Calabria era riuscita a conquistarsi un posto nella massima serie con una propria squadra.
Trascorrono quattro anni e, trascinato dagli 11 gol del futuro beniamino dei tifosi Massimo Palanca, il Catanzaro torna a calcare i manti erbosi della massima serie sotto la guida di Gianni Di Marzio. Ma è un’altra gioia effimera, perché la stagione 1976-77 coincide con un’altra, immediata discesa negli inferi. Rimangono alcune piccole soddisfazioni, come il successo per 1-0 sul Milan alla penultima di andata, bissato la giornata successiva dalla prima vittoria in trasferta, con identico risultato, contro la Lazio.
Il purgatorio, questa volta, dura appena un anno. Perché i calabresi si riappropriano nuovamente della Serie A. E iniziano a metter su radici. Per cinque stagioni consecutive, infatti, il Catanzaro mantiene il proprio posto tra le grandi del calcio italiano e per ben due volte, nel 1980-81 e nel 1981-82, chiude settimo in classifica. Ceduto l’idolo Palanca, l’uomo che calzava scarpini su misura – numero 37 – e segnava spesso direttamente da calcio d’angolo, a prenderne il posto nei cuori dei tifosi è Edy Bivi: porta la sua firma la rete con cui le aquile battono a San Siro il Milan, nelle cui fila gioca Stefano Cuoghi, attuale allenatore del Viareggio.
A proposito di Viareggio: a certificare l’ascesa del Catanzaro nel gotha del pallone italiano arrivano anche due partecipazioni alla prestigiosa Coppa Carnevale, nel 1982 e nel 1983. Nel primo caso i giovani giallorossi salutano la competizione ai quarti di finale, eliminati ai rigori dall’Ipswich Town di Mich d’Avray: in quella formazione gioca Armando Cascione, padre di Emmanuel, centrocampista viareggino ora in forza al Pescara.
Quei tempi, però, sembrano dei ricordi sbiaditi, lontani nel tempo: dopo due anni di Serie B, la società è infatti fallita e ripartita dalla vecchia C2 e domenica arriva allo stadio dei Pini da neopromossa. Ma il titolo di “nobile decaduta”, all’undici allenato da Francesco Cozza, proprio non si può togliere.