Mai come negli ultimi anni l’estate è stata così foriera di scandali nel calcio italiano: sotto l’ombrellone, gli sportivi leggono oramai non solo le ultime indiscrezioni sul mercato, ma anche di giocatori arrestati o sotto processo per essersi venduti per (più di) due denari.

C’è del marcio, insomma, nel pallone e i tentativi di aggiustare i risultati di una partita riflettono probabilmente l’indole di molti italiani. Non a caso, si cercava di aggirare le regole anche un secolo fa, quando nello Stivale il calcio era ancora agli albori. E ci fu chi, come Benito Mussolini, provò a inquadrarlo all’interno della cultura fascista partendo nientemeno che da Viareggio.

Quella del 1926 fu un’estate particolarmente torrida e turbolenta, contrassegnata dallo sciopero degli arbitri: i fischietti erano ormai divenuti il bersaglio di tiratori più o meno franchi, ovvero i presidenti delle varie società che potevano indicare alla Federcalcio i nomi dei direttori di gara non graditi. Il 7 febbraio, poi, non era stata convalidata una rete in un incontro tra Casale e Torino ed il risultato non fu omologato: nelle motivazioni si leggeva che all’arbitro Sanguinetti era mancata la “perfetta serenità di spirito”.

L’anno prima, invece, Leandro Arpinati, alto esponente del Partito Fascista a Bologna, aveva causato l’invasione di campo di alcuni squadristi nel corso di una partita tra Bologna e Genoa, valevole per le finali della Lega Nord: scopo delle camicie nere era quello di intimorire l’arbitro e di costringerlo a favorire i felsinei, che poi pareggiarono l’incontro e infine, al termine di cinque, drammatiche sfide, vinsero il campionato.

Non era tutto: in Italia imperversavano le prime trattative di calciomercato, con il passaggio di Renzo De Vecchi dal Milan al Genoa e quello di Virginio Rosetta dalla Pro Vercelli alla Juventus, la quale si vide peraltro decurtare in classifica i punti conquistati nelle partite in cui questi era sceso in campo. Il professionismo nel calcio, all’epoca, non solo era ritenuto immorale: era, soprattutto, illegale.

Era evidente come il football – a proposito: fu negli anni del Fascismo che vennero introdotte parole italiane in riferimento al gergo pallonaro, tra cui la stessa parola ‘calcio’ – necessitasse di “fascistica disciplina”. E Viareggio rivestì un ruolo di prima importanza.

Il 7 luglio l’onorevole Lando Ferretti, presidente del CONI e futuro presidente di giuria del Premio Letterario Viareggio, nominò una commissione chiamata a redigere il nuovo statuto del calcio italiano: l’onere toccò al gerarca romano Italo Foschi, all’ingegnere bolognese Paolo Graziani – era anche presidente della locale squadra di calcio – e all’avvocato milanese Giovanni Mauro, arbitro del famigerato incontro Bologna-Genoa.

I tre si riunirono il 2 agosto a Viareggio, all’epoca la località turistica balneare per antonomasia, frequentata dalle famiglie nobili così come dai grandi nomi dell’arte e della letteratura. Trovarono asilo nelle stanze del Regio Casino, donato alla città dal Duca di Lucca Carlo Ludovico nel 1827 e convertito in casinò “…onde i forestieri che vi si portano per l’uso dei bagni di mare abbiano un locale dove riunirsi nelle ore a questi non necessarie”.

Dopo nove ore di riunione, suddivise in una sessione mattutina e in una pomeridiana, il nuovo documento – chiamato, non a caso, Carta di Viareggio – fu promulgato ed entrò immediatamente in vigore: per il calcio italiano si trattava di un vero e proprio spartiacque.

In primo luogo era sancita la distinzione tra calciatori dilettanti e non dilettanti: dopo gli anni delle trattative clandestine di calciomercato, dunque, il professionismo veniva ufficialmente riconosciuto in Italia.

La Federcalcio, inoltre, venne completamento riformata: il Consiglio Federale fu sostituito dal Direttorio Federale, le cui cariche non furono più elettive, a capo del quale venne posto proprio Arpinati. L’Aia, l’associazione degli arbitri, fu poi rilevata dalla Commissione Tecnica Arbitrale e infine, per venire incontro agli ideali di identità nazionale promossi dal fascismo, furono gettate le basi del primo campionato italiano a girone unico: fino a quel momento, infatti, si assegnava la vittoria della Lega Nord e della Lega Sud.

Fu proprio in questa ottica che venne anche introdotto un limite sul numero di giocatori stranieri tesserabili: in una squadra non potevano figurare più di due calciatori non italiani e, a partire dal 1928, questi non sarebbero stati più ammessi.

Fu così che nacque il fenomeno degli oriundi o rimpatriati: le squadre iniziarono a setacciare le comunità italiane in Sud America, soprattutto in Argentina e Uruguay. Giunsero nella “madrepatria” giocatori quali Michele Andreolo, Renato Cesarini, Luis Monti (unico ad aver disputato due finali dei Mondiali con due nazionali diverse) e Raimundo Orsi, nati in terra straniera da migranti del Belpaese o sul suolo italiano per poi trasferirsi altrove.

Come spiega John Foot nel suo libro “Calcio. Storia dello sport che ha fatto l’Italia”, non è comunque del tutto corretto affermare che il tesseramento degli oriundi fungesse da scappatoia alle rigide regole imposte dalla Carta di Viareggio. Vigeva, infatti, un limite di due “rimpatriati” per squadra. Ed era poi difficile definire in modo inequivocabile lo status di questi giocatori: non si potevano considerare del tutto italiani, ma nemmeno erano assimilabili agli stranieri. Parlavano dialetti locali o lo spagnolo, quasi mai l’italiano.

Ad ogni modo, fu anche grazie agli oriundi che l’Italia divenne negli anni Trenta una delle nazionali più forti al mondo – se non la più forte – con la vittoria della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938.

Nel mezzo ci fu anche il titolo olimpico, l’unico finora nella storia del calcio azzurro, ai Giochi di Berlino del 1936: guarda caso, un contributo significativo a quel trionfo arrivò dal viareggino Carlo Biagi che segnò quattro reti nel quarto di finale contro il Giappone.

Nel momento in cui il calcio diventava sport di massa, la Perla del Tirreno recitava una parte da indiscussa protagonista.

@GorskiPark

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