PIETRASANTA. Ascanio Celestini in scena sul palco della Versiliana giovedì 23 agosto alle 21.30 con “Fabbrica”, spettacolo scritto, diretto e interpretato dallo stesso Celestini.

 Un momento di riflessione con uno tra gli attori più “impegnati” della scena nazionale, unanimemente riconosciuto come uno dei più giovani e importati esponenti del filone del “teatro della memoria”. Con il suo stile originale e affabulatorio, capace di rendere vive e emozionanti le storie dei suoi racconti Ascanio Celestini porterà in scena sul palco della 33° edizione del Festival La Versiliana “Fabbrica”, spettacolo scritto, diretto e interpretato dallo stesso Celstini. L’edizione 2012 del prestigioso Festival di Marina di Pietrasanta si arricchisce così, dopo le perfomance di Marco Paolini, Moni Ovadia e Paolo Rossi di un altro appuntamento che chiude il ciclo dedicato al teatro di narrazione, genere a cui il direttore artistico del Festival Luca Lazzareschi, ha voluto ritagliare uno spazio importante all’interno del cartellone.

Ascanio Celestini, non solo attore, ma anche regista, scrittore  e drammaturgo,  vincitore nel 2002 del Premio della Critica Teatrale e vincitore del il Premio UBU Speciale “per il complesso della sua ricerca della Storia dentro alle sue storie”, porterà in scena  “Fabbrica” racconto teatrale in forma di lettera che narra la storia di un capoforno alla fine della seconda guerra mondiale raccontata da un operaio che viene assunto per sbaglio. ( Info e biglietti 15 – 20 – 25 e 30 Euro allo 0584 265757 e su www.laversilianafestival.it )

 

In”Fabbrica” Il capoforno parla della sua famiglia. Del padre e del nonno che hanno lavorato nella fabbrica quando il lavoro veniva raccontato all’esterno in maniera epica. Per il capoforno la fabbrica ha un centro e questo centro è l’altoforno. La fabbrica lavora per il buon funzionamento dell’altoforno e i gas dell’altoforno trasformati in energia elettrica mandano avanti lo stabilimento. L’antica fabbrica aveva bisogno di operai d’acciaio e i loro nomi erano Libero, Veraspiritanova, Guerriero. L’età di mezzo ha conosciuto l’aristocrazia operaia con gli operai anarchici e comunisti che neanche il fascismo licenziava perché essi si rendevano indispensabili alla produzione di guerra. Ma l’età contemporanea ha bisogno di una fabbrica senza operai. Una fabbrica vuota dove gli unici operai che la abitano sono quelli che la fabbrica non riesce a cacciare via. I deformi, quelli che nella fabbrica hanno trovato la disgrazia. Quelli che hanno sposato la fabbrica lasciandole una parte del loro corpo, della loro storie e della loro identità.

 

Chi racconta il lavoro racconta qualcosa del proprio corpo. Anche quando parla del cottimo collettivo, delle vertenze sindacali e dell’articolo 18 usa un immaginario che fa riferimento al corpo. Come se per parlare di ciò che è accaduto si dovesse tradurre in un linguaggio i cui riferimenti sono la malattia e la salute, la bellezza e la deformità, la forza e la debolezza.

Imparare il mestiere in fabbrica significava guardare gli altri che lavoravano e poi ripetere i gesti che avevano visto fare. Per la maggior parte degli operai non c’è mai stato un momento nel quale il proprio lavoro veniva descritto a parole. A Terni si dice imparare a rubeccio, racconta Sandro Portelli in un suo libro, si imparava “rubando” con gli occhi. E poi il resto del lavoro era il corpo stesso a memorizzarlo. Per questo nel momento in cui si chiede ad un operaio di parlare del proprio lavoro lui si sente spiazzato. Perché il lavoro l’ha sempre fatto senza parlarne tanto. Allora quell’operaio più che raccontarti il suo lavoro incomincia a compiere i movimenti che la memoria del suo corpo conosce e riconosce.

 

Il racconto di Fabbrica è nato come una lettera, l’ultima di tante che l’operaio-narratore ha scritto quotidianamente alla madre. Ha scritto una lettera al giorno per più di cinquant’anni e ne ha saltata soltanto una. È la lettera del giorno della sua disgrazia. È la disgrazia che l’ha lasciato segnato nel corpo, una menomazione, ma è anche il lasciapassare per la fabbrica, la causa che l’ha fatto lavorare per tanti anni.

Con la scrittura di questa lettera l’operaio-narratore ricostruisce il ponte della memoria. Mette a posto l’ultimo tassello. Ma è il tassello più importante, quello che restituisce senso all’intero percorso della sua vita di operaio e di persona. È l’ultima lettera che scrive, ma racconta del momento di passaggio più importante della sua vita. Il momento nel quale accede alla fabbrica, entra in uno spazio fisico e mentale separato dal resto della città.

 

 

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