Un imprenditore ucciso (Stefano Romanini); un imprenditore – nonché cugino ed ex socio della vittima – condannato in primo grado all’ergastolo ritenuto dalla Corte di Assise di Lucca mandante del delitto (Roberto Romanini) e ancora tanti misteri: sette anni dopo quella tragica mattina dell’8 febbraio 2011, quando un mai identiticato killer uccise Stefano Romanini, il giallo di Camaiore non ha ancora visto la comparsa della parola fine. Non solo: proprio nell’autunno scorso, il ritrovamento di una pistola in un terreno nelle vicinanze dell’abitazione di Roberto Romanini (agli arresti domiciliari) ha riaperto un ampio fronte del caso. Come dire insomma che la vicenda potrebbe riservare molte altre sorprese nei prossimi gradi di giudizio se i risultati della perizia balistica sull’arma dovessero far emergere altre verità, ammesso ma non concesso, che siano possibili e compatibili con la ricostruzione di un caso spigoloso e complesso, più di quanto si possa immaginare,

L’UNICA certezza degli inquirenti – che non solo mai riusciti a dare un volto e un nome al killer – è che la mano dell’assassino sia stata ‘armata’ dal cugino della vittima: Roberto Romanini sarebbe stato il mandante del delitto ma al di là di molti indizi sul fatto che i due non andassero d’accordo per motivi economici (la ditta della quale erano stati soci aveva accumulato perdite pesanti), la prova-regina del giallo non c’è. Per la Procura, le tesi dell’accuse erano state sostenute dal pubblico ministero Fabio Origlio,  Stefano Romanini sarebbe stato ucciso proprio il giorno in cui scadeva un polizia sulla vita di seicentomila euro, il cui beneficiario sarebbe stata proprio l’azienda del cugino Roberto. Polizza, vale la pena di ricordare, che non è comunque mai stata incassata.

ERANO le prime luci del mattino di quell’8 febbraio 2011 quando Stefano Romanini, uscito di casa dopo avere salutato la moglie e le due figlie, scese in strada per andare al lavoro: appena il tempo di arrivare alla portiera della sua Golf, che una persona – rimasta nascosta in una piccola corta vicino la sua abitazione, fumando a ripetizione per la tensione: ma i mozziconi di sigaretta recuperati non hanno prodotto elementi decisivi per l’inchiesta con la prova del Dna – cominciò a sparare colpi di pistola contro di lui. Nove quelli che lo colpirono: uno in particolare, gli tranciò l’arteria femorale che provocò l’emorragia fatale. Stefano Romanini – per l’accusa – prima di morire, fece in tempo ad indicare chi poteva essere stato ad armare la mano del killer, killer che dopo l’esecuzione fece perdere le sue tracce. Gli inquirenti trovarono anche un’agenda-diario nel quale Stefano Romanini aveva annotato riflessioni sul difficile rapporto con il cugino Roberto. Il quale Roberto, per quel giorno, aveva un alibi di ferro: si trovava in compagnia di un amico (un agente della polizia municipale di Viareggio) a Torino per motivi di lavoro. E anche le persone vicine a Roberto avevano alibi di ferro. Da qui la convinzione – sempre per le tesi dell’accusa – che Roberto Romanini avesse ingaggiato un killer venuto da fuori, forse uno straniero. Ma anche in quel caso, l’unico nome emerso aveva un alibi. Misteri su misteri, che la Procura, sia durante la fase istruttoria e anche quella dibattimentale nel corso del processo in Corte di Assise,  ha cercato di dipanare fino alla sentenza di primo grado: ergastolo. Ma la storia processuale non è ancora finita.

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ultimo aggiornamento: 08-02-2018


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