I numeri sono importanti. Hanno il loro peso: in tre mesi – dal 13 settembre, da quando sono scoppiate le proteste contro la teocrazia che guida dal 1979 il paese  – in Iran sono stati uccisi almeno cinquecento manifestanti. Sessantatrè erano minorenni. In ventimila sono stati rinchiusi in carcere ed almeno ventotto persone sono state condannate a morte, solo per aver partecipato a quelle manifestazioni. Undicimila sono stati nei decenni i prigionieri politici annientati. 

Di fronte a questi numeri non si può rimanere silenti. La Toscana e gli iraniani in Italia gridano insieme la loro rabbia e il loro sgomento. Ma più che un numero, che a volte rischia di restare anonimo, valgono i volti, i nomi e le storie che vi stanno dietro. Morti e  condanne inconcepil in un mondo ‘normale’, dove il valore dei diritti umani dovrebbe venire prima di ogni altra cosa. Storie assurde.

Come quella di Asra Panahi, sedici anni, uccisa per essersi rifiutata di cantare la canzone dedicata al guida suprema. Come Kian Pirfala. un bambino di dieci anni, piccolo inventore che sognava di diventare da grande uno scienziato, ucciso da un proiettile mentre era in auto con i genitori. Come Mona Naghib, sette anni, che era in strada con la sorella quando si è accasciata: mano nella mano, mentre tornavano da scuola.  Come Meheran, ventiseienne, felice perché si stava per sposare e quella maledetta sera era in piazza a festeggiare la sconfitta della nazionale degli ayatollah ai mondiali di calcio del Qatar: haa semplicemente suonato il clacson della sua auto e gli hanno sparato. 

Storie come quella di Mohsen, primo manifestante condannato a morte e giustiziato, l’8 dicembre scorso: colpevole di aver bloccato con la sua auto una via ed aver graffiato un poliziotto che lo voleva far arrestare. Era in piazza per protestare contro la morte  di Mahsa Amini, la ragazza ‘colpevole’ di aver mal indossato il burqa, la scintilla che a settembre ha svegliato un intero popolo e ha dato inizio ad una rivoluzione. Mohsen è stato accusato di ‘guerra contro dio” e giustiziato.

Oppure storie come  quella di Hamid e Farzaneh Qare Hasanlu, coppia di medici da tutti ritenuti benefattori. Hanno partecipato alla commemorazione di Hadis Najafi, l’altra ragazza uccisa in questa rivoluzione.  Lui è stato condannato a morte, lei a venticinque anni di carcere. E il figlio di dieci è rimasto solo. 

Le loro storie riecheggiano in piazza del Duomo a Firenze attraverso la testimonianza viva ed accorata di due donne del movimento “Donne, vita, Libertà”, una rete di immigrati di prima e seconda generazione. Si commemora la giornata internazionale per i diritti umani. Piove, ma nonostante il maltempo almeno un centinaio sono in piazza per l’iniziativa voluta dalla Regione Toscana.  

“Via i tiranni dall’Iran” si legge sui cartelli appesi al collo di alcuni manifestanti. “Diritti umani uguali per tutti”. E poi sei, dodici, quindici ed ancor più foto, con un nome e un’età, per dare una volto a condannati e morti, giovani e spesso anche bambini. Una rappresentazione plastica delle promesse tradite di un regime che quarantatrè anni fa si era impegnato, raccontano gli iraniani della Toscana, a portare sulle tavole delle famiglie i soldi ricavati dalla vendita del petrolio, con acqua, gas e luce e gratis per tutti. Ma niente di tutto questo è stato, continuano: “l’economia è allo sfascio e l’ambiente distrutto”.  

Piove in piazza del Duomo a Firenze e  la comunità iraniana piange. Molti singhiozzano, ma incitano anche alla lotta. “Libertà, libertà, libertà”. “Combattiamo, moriamo, ripartiamo”. Un invito netto a prendere posizione:  dalla parte di un popolo che lotta o dalla parte di un governo criminale. E la Toscana, che per prima nel mondo ha abolito nel Settecento la pena di morte, non può rimanere silente. “La protesta – racconta Sanaz Parto, una delle militanti di “Donne, Vita e Libertà” –  è nata a settembre dalle donne, ma ha poi coinvolto tutto il popolo”.  L’Occidente magari credeva che sarebbe finita dopo qualche giorno: come le rivolte studentesche del 1999, come l’onda verde del 2009, come le proteste per il carovita  del 2019. E invece no. 

“A noi – racconta Sanaz – era chiaro: sapevamo che era l’esplosione di una rabbia cresciuta e covata negli anni. All’inizio è stata descritta come la protesta di donne contro uomini. Ma non era così. Sono partite le donne, ma da subito gli uomini sono stati accanto a loro. Il 90 per cento dei morti sono uomini, i condannati a morte lo stesso.  Questo è un regime che opprime tutti e tutti insieme stanno combattendo”.

Ma è importante dar loro voce. “Dopo settembre – confessa Sanaz – comunicare con chi è rimasto in Iran è diventato più difficile: il regime ha spento internet. Accedere al web si è fatto complicato e siccome  la libertà di stampa non esiste e solo attraverso la rete che ragazze e ragazzi che protestano riescono a raccontare cosa sta succedendo. Qualcuno però ancora ci riesce”.  Storie e volti che la Toscana ha voluto oggi illuminare. 
 

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