“Velia Carmazzi è viva, vive in un campo rom a Brescia”. Massimo Remorini lo grida dal carcere di Massa, dove è detenuto attualmente dopo la sentenza della Cassazione che aveva confermato la condanna a 38 anni per omicidio, distruzione e occultamento di cadavere, truffa e circonvenzione di incapace in merito alla nota vicenda delle donne scomparse dal campo di Torre del Lago, e mai ritrovate, della quale si era occupato anche il programma di Rai 3 “Chi l’ha visto?”. Ma, a distanza di un mese, emergono nuovi particolari: Velia  sarebbe stata vista nella città lombarda da un commerciante, titolare di una paninoteca, e il suo nuovo legale, avvocato Alessandro Maneschi del foro apuano, si sta attivando per iniziare una serie di investigazioni difensive che, se porteranno ad ottenere una testimonianza certa del fatto che la donna sia viva e vegeta,  ossia prove nuove, potrebbero portare alla presentazione di una istanza per la revisione del processo. Ma c’è di più: Massimo Remorini avrebbe anche riferito delle sorti dell’anziana madre della donna, Maddalena Semeraro, i cui resti sarebbero stati gettati – da chi resta un mistero –  in un fosso nel padule tra Viareggio e Torre del Lago.  Rivelazioni choc, quelle di Remorini, con un “particolare” inedito, mai emerso, o “confessato”, in questi lunghi 9 anni, troppi, comunque, per poter solo pensare di ritrovare i resti della donna.  La zona, assieme al lago di Massaciuccoli, fu scandagliata dai Carabinieri, con l’ausilio dei sommozzatori dell’Arma, all’epoca delle indagini, era la fine del 2010.   Il fosso in questione era finito alla ribalta della cronaca nell’aprile del 2014  anche per un altro caso,  con la Polizia, coordinata dalal Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze, impegnata a cercare il cadavere di Arent Gega, dopo la “soffiata” di un pentito che aveva indicato quel luogo come tomba del ragazzo albanese residente a Certaldo, all’epoca 24enne, scomparso nel maggio 2010 ( pochi mesi prima della scomparsa di Velia Carmazzi e Maddalena Semeraro) dopo un colloquio di lavoro a Viareggio. La sua auto, un Citroen nera, fu ritrovata bruciata dai Carabinieri. Padule luogo dei misteri, quindi, con corpi mai rinvenuti.

La parola fine sul caso di Velia e Maddalena l’aveva scritta la suprema corte nell’aprile del 2017.  Massimo Remorini e Maria Casentini erano stati condannati in primo grado a Lucca rispettivamente a 38 e 16 anni. Condanne confermate in secondo grado e in Cassazione in toto. Cecchino Tureddi, ora morto, assolto in primo grado, era stato il “teste chiave” di tutto il quadro accusatorio della vicenda. “Tureddi è un soggetto senza fissa dimora, non raccomandabile, ma in questo processo ha detto la verità, dopo aver detto il falso ha avuto coraggio. Prima ha seguito le indicazioni di Remorini, che lo pagava per dei lavoretti, dando una versione diversa, poi a un certo punto, ha raccontato di aver visto il cranio dell’anziana”, avevano sostenuto il pm Sara Polino a Lucca, in primo grado, e il Pg di Firenze in Appello.

La vicenda è nota. Velia e Maddalena scomparvero dal campo ribatezzato “degli orrori”, in via dei Lecci a Torre del Lago, a fine estate 2010. Lo “zio”, Massimo Remorini, fu condannato in primo grado a Lucca a luglio 2014 assieme alla badante Maria Casentini. Fondamentale la testimonianza di David, il figlio e nipote delle due povere donne, parte offesa nel processo con la sorella Sabrina, tutelati dagli avvocati Consani e Nicoletti: lui, il “bimbo, aveva ricordato quanto già detto piu’ volte, ripercorrendo dall’inzio tutta la vicenda, iniziata nel lontano agosto 2010 quando a fine agosto, era il 22, il ragazzo, poco più ventenne, trovò la mamma Velia, come morta, coperta da un lenzuolo, sul letto della roulotte nel campo di via dei Lecci dove da tempo viveva con la madre Maddalena Semeraro dopo la vendita delle due case di proprietà. Il ragazzo aveva risposto alle domande del pubblico ministero confermando in toto quanto già messo a verbale all’incidente probatorio avvenuto il 13 maggio del 2011, e detto piu’ volte sia alla stampa che alle telecamere delle varie tv. Particolari non solo del giallo che aveva interessato la Versilia e tutta Italia, ma anche il suo passato: il suo rapporto con la madre e la nonna, le caratteristiche della vita familiare nel periodo in cui lo stesso abitava con le due donne al campo, quelle del luogo dove l’accusa ha sempre ipotizzato fossero stati commessi i reati di sequestro, maltrattamenti, omicidio e distruzione dei cadaveri, e dei rapporti intrattenuti con lo “zio”, la badante Maria Casentini e Francesco Tureddi. Ma era stato proprio “Cecchino”, il “pentito”, difeso dall’avvocato Aldo Lasagna, il teste chiave del processo di primo grado “Non so dove sono le donne. Non l’ho mai saputo dove hanno gettato i sacchi dell’immondizia con i loro resti. Io ho solo buttato via il bidone dove Massimo Remorini e Maria Casentini le hanno bruciate. Perché le hanno uccise? Perché Velia e Maddalena volevano denunciare Massimo”. Iniziò cosi la sua deposizione fiume, confermando tutto quanto messo a verbale nel febbraio 2011 in caserma dai militari dell’Arma e durante l’incidente probatorio. Ricordi ancora vivi, di quello che era il campo degli orrori dove Velia Carmazzi e Maddalena Semeraro vivevano, come segregate, dopo la vendita delle loro due case alla famiglia dell’avvocato Giunio Massa, anche lui sotto processo con il rito abbreviato. Il luogo, con le roulotte e la casina di legno, la carriola, i bidoni, “Cecchino” li aveva descritti nei minimi particolari. Cosi come aveva ricordato della sedia a rotelle, dove l’anziana madre di David Paolini, il figlio e nipote delle scomparse, sedeva, avendo problemi di deambulazione, delle punture di novalgina fatte dalla Casentini, per sedarla, e di aver venduto, dopo la scomparsa, in un Compro Oro di Viareggio, incaricato da Remorini, i gioielli delle due donne, ricavandone poco più di 800 euro. Consapevole di dover pagare il suo debito con la giustizia per aver falsamente dichiarato in precedenza di aver visto Claudia Velia Carmazzi e Maddalena Semeraro allontanarsi volontariamente dal campo di via dei Lecci a Torre del Lago a bordo di una vecchia Mercedes nera targata Milano, guidata da un uomo dalla pelle olivastra, “Cecchino”, in aula aveva ribadito di non aver ucciso le due donne e di non aver nemmeno contribuito ad occultarne i cadaveri: come aveva già detto pubblicamente, Tureddi si era cosi tolto un peso dalla coscienza, aveva confermato di aver solo gettato in un cassonetto al Pollino il bidone. Ad uccidere Velia e Maddalena, e a gettarne via i resti, erano stati Massimo Remorini e Maria Casentini. Ad agosto, arrivando al campo, “Cecchino”, come raccontato anche ai media illo tempore, aveva trovato lo “zio” intento a bruciare qualcosa in un bidone, e Remorini gli aveva risposto che dentro a quel grosso fusto stava dando fuoco al corpo di Velia. “Il fuoco era alto, non ho visto il corpo”, aveva affermato. Poi aveva riferito, confermando quanto già verbalizzato negli anni addietro, di essere entrato, nel mese di settembre 2010, nel terreno per prendere degli attrezzi e vedendo quel bidone, rosso, usato in genere per bruciare i rifiuti, e ricordando la frase dell’amico, alla quale ad agosto non aveva creduto, ci aveva guardato dentro scoprendo il corpo fatto a pezzi e semibruciato dell’anziana Maddalena, con il cranio fracassato forse da una badilata. “Non sono un assassino – aveva ripetuto – , non le ho uccise io, mi sono spaventato, e pur chiamando Remorini sul cellulare per chiedergli cosa avesse fatto, poi sono scappato”. Morte e bruciate. Sarebbe questo il tragico epilogo della scomparsa da Torre del Lago di Claudia Velia Carmazzi e Maddalena Semeraro. E il bidone dove i corpi sono stati ridotti in cenere, schiacciato con una ruspa. Francesco Tureddi, imputato nel processo per favoreggiamento, l’anello debole del giallo che per mesi ha tenuto impegnati gli inquirenti, nel febbraio 2011 era crollato e da allora non aveva più cambiato la sua versione e lo ripete’ come una litania: “Mi sono liberato la coscienza, avevo un peso sullo stomaco che non mi faceva più dormire”. “Ad agosto, arrivando al campo, Cecchino aveva trovato Massimo Remorini che stava bruciando non so cosa in un bidone – aveva ripetuto, ad abudantiam -, e gli ho chiesto cosa stesse facendo”. Lui, lo “zio”, gli aveva risposto che dentro a quel grosso fusto stava dando fuoco al corpo di Velia. Ma Cecchino non gli credette: “Ho pensato che mi stesse prendendo in giro, e me ne ero andato”. Ma il mese dopo, poco dopo la metà di settembre, entrato nel terreno per prendere degli attrezzi rivede quel bidone, ricorda la frase dell’amico e incuriosito ci guarda dentro: “ ho visto una cosa terribile, mai vista in vita mia, una scena da film macabro”. La nonna, come Tureddi ha sempre chiamato l’anziana madre di Velia Carmazzi, era chiusa dentro, pigiata e ripiegata in due, mezza bruciata. Una scena terrificante, da film dell’orrore, quella descritta nell’aula del tribunale di Lucca: “Sulla parte destra del cranio aveva anche una grossa ferita, si vedeva il cervello – precisò “Cecchino”-, come se le avessero dato una botta in testa con una vanga”. Tureddi spaventato aveva chiamato Remorini, e gli aveva chiesto “cosa hai fatto?”. Inizialmente aveva coperto l’amico, creandogli un alibi, affermando di aver visto madre e figlia andarsene con un uomo: “Mi ha minacciato, se avessi raccontato la verità, e anche offerto 10mila euro per il mio silenzio, e una casa dove poter vivere, ma a questo punto non potevo più nasconderla”. E la sua voglia di parlare è racchiusa nelle due telefonate al 112 e al 113 fatte il 10 gennaio a distanza di pochi minuti quando, senza trovarli, aveva chiesto di parlare con il maggiore Andrea Pasquali e poi con l’allora dirigente del Commissariato di Polizia Leopoldo Laricchia. “Telefono per le due donne scomparse – aveva detto all’operatore – ho una lametta in mano e voglio farla finita”. Cosa avesse voluto raccontare a carabinieri e polizia lo ha detto poi, dopo la notifica dell’avviso di garanzia e la perquisizione nella camera della pensione Mirafiori, dove viveva, e al campo di Piano di Mommio dove si trovavano accatastati gli infissi delle case delle due donne, e i mobili e l’argenteria di Raffaella Villa. In mano agli inquirenti, come si leggeva nell’ordinanza del Gip, c’era sia l’intercettazione della telefonata tra lui e Maria Casentini che quella della telefonata tra la badante e lo “zio”. “Sono stato un ladro, e un rapinatore, e ho pagato per questo – aggiunse -, ma non ho mai ucciso nessuno”. L’accusa nei confronti di Remorini fu di averle fatte fuori: “so che le due donne lo volevano denunciare, e Maria Casentini le imbottiva di Novalgina”. Avvelenate con i medicinali? Uccise volontariamente? I corpi non sono mai stati ritrovati. Quel bidone dove le due donne sarebbero state bruciate, a quanto riferito da “Cecchino”, era stato avvolto in un coprimaterasso, caricato su un Berlingo e gettato in un cassonetto vicino al Pollino, a Pietrasanta, pochi giorni prima che i carabinieri del Ris iniziassero a scavare nel campo degli orrori. “Ce l’ho portato io – aveva confessato -, ma è l’unica cosa che ho fatto”.

Prima Velia, e in un secondo momento Maddalena Semeraro, sparirono nel nulla. E del fatto che non fossero più vive, come che i cadaveri fossero stati fatti sparire, l’accusa ne è sempre stata certa. La condanna per omicidio nel nostro ordinamento è a prescidere dal ritrovamento di un cadavere.

Aspettando gli esiti delle indagini affidate da Remorini al suo legale, si potrebbe riapre il sipario sulla vicenda processuale sul mistero delle due donne
Anche Maria Casentini, in cella a Sollicciano, impegnata nel progetto degli asinelli dell’associazione Pantagruel, che lo scorso anno aveva inviato alla nostra redazione una lettera gridando la sua innocenza, considerata amante di Remorini e complice, e condannata a 16 anni di carcere, ha incaricato il suo nuovo legale fiorentino, avvocato Duccio Martellini, di trovare elementi nuovi per poter arrivare a riaprire il caso.
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