“Questo giorno che incombe” è l’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi edito da HarperCollins nel gennaio 2021 e candidato al Premio Strega. La drammatica scomparsa di una bambina dal proprio rassicurante condomionio getta ombre su tutti i personaggi che abitano gli appartamenti e costringe Francesca, la donna protagonista, moglie e madre che da poco ha cambiato città, a un incessante dialogo ossessivo con se stessa.

Il tuo ultimo romanzo “Questo giorno che incombe” prende spunto da un episodio di cronaca realmente accaduto di cui la tua famiglia è stata testimone durante la tua infanzia: la sparizione di una bambina in un condominio. Cosa ti ha spinto a ripescare questo fatto per metterlo al centro di romanzo intenso, a tratti crudo e fortemente introspettivo?

Quando io e mia sorella eravamo molto piccole, la mia famiglia si trasferì nel quartiere Japigia, a Bari, dove i miei vivono ancora oggi. Un condòmino li avvisò che quello non era un posto sicuro per chi aveva due figlie piccole: da lì, da quel cortile, era appena scomparsa una bambina. Questa tragica storia non fu rivelata a noi bambini per tanti anni. Poi, quando sono cresciuta, mio padre me l’ha raccontata. Allora ho capito tutta una serie di atteggiamenti che i nostri genitori avevano avuto per anni con noi bambini del cortile, anche molto tempo dopo che questa storia si era conclusa. I nostri genitori non ci perdevano mai d’occhio, non ci lasciavano mai soli, nonostante, in teoria, dentro il nostro cortile fossimo al sicuro. Nessuno poteva entrare o uscire. Ho capito perché, quando eravamo in cortile, si respirava un’ansia sotterranea ma costante. E ho capito anche che quella era una storia mia, perché aveva modificato il modo di educarmi e crescermi dei miei genitori. Ho deciso di raccontare questa storia perché quella bambina non venisse dimenticata, e perché parlava anche di me, ma – come ho sempre fatto sinora – ho anche deciso di non scrivere i fatti così come erano caduti, ma solo di prendere ispirazione da ciò che era successo. Credo, infatti, che l’invenzione romanzesca possa contenere in sé tutti gli aspetti della realtà. Credo fortemente nell’invenzione di mondi e personaggi, per raccontare ognuno di noi.”

Al centro della storia c’è Francesca, una donna da una vita apparentemente perfetta (un marito che amava, due bambine, un nuovo lavoro che dovrebbe essere più soddisfacente) colta nell’attimo del cambiamento (cambio di casa, città, professione). A mio avviso sei stata davvero efficace nel descrivere le aspettative, le paure, i conflitti, l’egoismo, la passione che accompagna ogni cambiamento. A Francesca cosa manca, fondamentalmente, per essere serena?

Grazie! Prima di trasferirsi da Milano a Roma, Francesca non credeva che le mancasse qualcosa per essere serena. Pensava di essere una persona risolta. Pensava di non avere lati oscuri (Francesca si dice sempre: il buio dentro o ce l’hai sempre o non ce l’hai più, e io non ce l’ho). Forse però stava mentendo a sé stessa. Stava fingendo di essere serena. Appena arriva nella nuova casa, è come se la sua parte oscura venisse a galla immediatamente. Come se fosse quella casa a farla emergere. Cosa le manca? Io credo la libertà.

Sono rimasta molto colpita come attraverso la narrazione tu sia riuscita a mettere a fuoco la solitudine e il dramma di una donna che si ritrova imprigionata nella sua casa e nel ruolo che riveste, dichiarando, per esempio, anche nel maternage, pensieri spesso inconfessabili e diffusi nel mondo femminile come la solitudine, le paranoie, il senso di estraneità nei confronti delle figlie quando predominano i pensieri ossessivi, la conflittualità tra l’essere donna e madre. E’ forse questo il lato oscuro di Francesca con cui deve fare i conti personali mentre il “nero” imperversa anche nella realtà fuori dal dialogo con se stessa?

È anche questo. Prima di trasferirsi, Francesca aveva una vita completa. Appena arriva nel quartiere Giardino di Roma – un quartiere residenziale di periferia, lontano dal cuore della città e anche da Ostia, impossibile da varcare senza mezzi di trasporto propri – suo marito viene risucchiato, e non c’è più. Francesca non ha amici. I condòmini del cortile paiono all’inizio molto gentili, accoglienti, disponibili. Ma subito diventano strani, inquisitori, sinistri. È sola tutto il giorno con le sue due figlie piccole, che reclamano e richiedono costante affetto, presenza, dedizione totale. Non c’è più nient’altro. Francesca non riesce più a lavorare – cosa per lei importantissima, vitale -, non parla con nessuno, le figlie le succhiano il sangue. Non è più una persona. La sua identità di essere umano le viene strappata e di Francesca non rimane più niente: viene ridotta a un ruolo, una funzione. Quella di madre. Volevo con questo raccontare anche i lati oscuri della maternità, come sia normale sentirsi a volte intrappolati dentro il ruolo di madre, come sia normale provare anche momenti di odio verso i propri figli. E volevo farlo anche nella speranza che, se questo libro verrà letto da una donna che è in crisi con la sua maternità, questa donna non si senta più sbagliata. Perché non è più sola.

Un ruolo importante nella storia viene rivestito dalla casa che si fa vero e proprio personaggio nei pensieri della protagonista tanto da dialogare con lei. Cosa rappresenta questa casa nelle metafore che pervadono il romanzo?

La casa, per me, è stato il personaggio più bello da scrivere. E anche una scoperta. Ho fatto un lunghissimo lavoro di preparazione alla scrittura del romanzo perché, trattandosi anche di un thriller psicologico costellato di colpi di scena e che doveva tenere alta la suspense, prima di iniziare a scrivere dovevo sapere tutto, o quasi tutto quello che sarebbe accaduto. Quindi ho lavorato molto alla struttura, alla costruzione della storia, all’intersezione delle storie dei personaggi. Pensavo di conoscere tutto del libro, prima di iniziare a scrivere. E invece, quando ho iniziato a scrivere mi sono accorta che non sapevo niente. Perché non avevo pensato minimamente alla casa come un personaggio. Mi è venuto naturale. Quando Francesca entra in contatto con lei prima volta, la casa, invece di salutarla metaforicamente, la saluta davvero: “Benvenuta, Francesca”, le dice.

Allora ho capito che la casa era un personaggio, e che avrebbe sviluppato un rapporto con Francesca che sarebbe durato per tutto il libro. Ho capito che la casa sarebbe stata l’unica amica o la più grande nemica di Francesca. Ho capito che la casa sarebbe stata l’unico “essere” con cui Francesca può parlare davvero. Poi vorrei che ogni lettore decidesse se la casa è: un vero spirito che abita la casa, il coro delle donne che dice a Francesca come dovrebbe essere, come dovrebbe comportarsi una buona madre, o lo scontro costante di Francesca con Francesca stessa.

Altro aspetto importante è sicuramente il ruolo di una comunità chiusa, rappresentata dai condomini che si illudono di vivere nel loro edificio con annesso cortile in una Paradiso in terra di cui il cancello è l’emblema ricorrente come confine tra dentro e fuori. I legami tra i condomini sono determinanti nello sviluppo della storia tra sospetti, indagini: quali sono i lati postivi e negativi di una comunità chiusa come il condominio della storia?

I condòmini che abitano il cortile di Francesca – un condominio da sogno, nuovissimo, con un bel cancello rosso scintillante, le giostre per i bambini, il verde e un portiere sempre presente e gentile – si rivelano come dici tu una comunità chiusa. Una sorta di setta – è questo che pensa Francesca. Quando Francesca arriva nella nuova casa, è contenta di avere dei vicini così cordiali. Ma quasi subito comincia a pensare che c’è qualcosa che non torna. I condòmini sono troppo gentili, troppo presenti, al limite del sinistro. Sente i loro occhi guardarla sempre, spiarla, non smettere mai di indagarla. Raccontando questi condòmini, volevo raccontare anche quanto può essere pericoloso un gruppo di persone – di qualsiasi gruppo si tratti – che si convince di possedere la Verità. Fomentandosi a vicenda, i membri di questo gruppo possono diventare sempre più feroci, fino a compiere gesti di una crudeltà senza precedenti.

In tutta la storia pervade la minaccia del male: i condomini appaiono come personaggi sinistri agli occhi di Francesca, i segnali in cortile sono da subito interpretati come cattivi presagi, la sparizione della bambina porta la consapevolezza che il male non si può allontanare ma addirittura può tornare. Che ruolo ha nella storia l’elemento nero?

Il male per me è qualcosa che abita dentro di noi e anche fuori di noi. Il male marchia persone e luoghi, e se non stai attento ti fagocita. Se invece ti ribelli al male – come succede in questa storia – dal male puoi rinascere più forte, più consapevole dei desideri e del tuo coraggio, perfino più vitale. L’elemento perturbante – ciò che di sbagliato, in qualsiasi senso si voglia intenderlo,c’è in una situazione apparentemente normale – è per me importantissimo per “Questo giorno che incombe”. Appena poggia la mano sul cancello rosso della sua nuova casa, Francesca si ferisce. Cosa l’ha ferita? Subito viene a sapere che nel quartiere ci sono stati strani incendi. Ma chi li ha causati? E perché nessuno vuole parlarne con lei? Di notte sente dei passi furtivi in cortile. È sogno o realtà? Per me il perturbante – usato magistralmente da Stephen King e Shirley Jackson, per esempio – serve a veicolare un senso di oscuro, di smarrimento, di imperscrutabile. È come un filo rosso che passa per tutto il romanzo e si rivolge direttamente al lettore, chiamandolo in causa e chiedendogli di scegliere in cosa credere.

Io considero il tuo romanzo un noir ma presenta anche alcuni connotati della storia d’amore. Quanto i due generi dialogano e concorrono al crescendo della storia?

Non saprei dire qual è il genere preciso di questo romanzo. Non credo abbia solo un genere. Anche i miei passati sono una commistione di generi. “Questo giorno che incombe” è un thriller psicologico, ma anche una storia d’amore con una forte componente sensuale, ma anche un romanzo perturbante, ma anche un romanzo tout-court, senza aggettivi. Per me la fusione tra i generi è molto interessante, quando scrivo, perché mi permette di raccontare tutto quello che serve alla storia senza rimanere ingabbiata in uno stile solo, un tema solo, un genere solo.

“Questo giorno che incombe” è un romanzo di contrasti: la luce e la bella stagione esterne con il dramma del condominio, l’idillio e l’orrore, una famiglia apparentemente perfetta con una coppia che si ritrova in crisi, un condominio compatto e chiuso a cui si oppone Fabrizio, musicista e personaggio di grande attrazione per Francesca ma decisamente fuori dal coro. Cosa rappresenta nella simbologia della storia?

Sì è vero, è un romanzo di chiaroscuri e di contrasti. Volevo scrivere un libro in cui il bene e il male non fossero chiariti in modo manicheo e decisi dall’alto dallo scrittore, ma in cui, come nella vita, fosse ogni lettore a decidere se amare o odiare un personaggio, se perdonarlo o giustiziarlo, se allontanarlo o avvicinarlo. Dopo un caldo asfissiante, quando nel romanzo la bambina scompare, cade una grandine fittissima per giorni. E tutti non possono che immaginare questa bambina, sola, nella tormenta. Per me esterno e interno dialogano continuamente in un romanzo, e a volte anche solo raccontare un ribaltamento meteorologico può dire molto di più che spiegare, dire, i sentimenti dei protagonisti.

A livello linguistico hai scelto di alternare la prima persona (i pensieri di Francesca) con la narrazione in terza persona, con un’orchestrazione complessa e fluida dal risultato importante perchè capace di coinvolgere il lettore nel cuore della storia e nei meandri della protagonista. In questa scelta stilistica quanto si rispecchia la tua necessità di mantenere lo sguardo sulla realtà e nei labirinti psichici di Francesca e quanto ha influito la tua anima di sceneggiatrice affermata nella tua scrittura?

Per me ogni romanzo è diverso. Necessita di una scrittura diversa, di una lingua diversa, di uno stile diverso. Quando ho cominciato a scrivere Questo giorno che incombe ho capito che avrei dovuto scriverlo in terza persona perché il punto di vista di Francesca non fagocitasse tutto il resto, ma che – è la prima volta che lo faccio – i pensieri di Francesca dovessero palesarsi al lettore, poiché fanno parte della trama, della storia che racconto. Sono contenta se mi dici che questo lavoro così lungo sulla lingua ha dato buoni risultati. Per me la lingua e il punto di vista sono tutto in un romanzo: sono ciò che arriva al lettore, sono il tunnel che vorrei li portasse dritti dentro la storia. Vorrei che il processo di scrittura e di lavoro non si notassero e che il libro scorresse veloce nelle mani del lettore. Vorrei sembrasse che questo libro non l’ha scritto nessuno: che si è scritto da sé.

Nel romanzo al centro della vicenda c’è un dramma riguardante la pedofilia di cui tu hai saputo parlare con le parole ben cesellate, senza andare nel melò e nello scabroso: quali opportunità offre il linguaggio del romanzo per affrontare un tema così delicato pur in una storia claustrofobica?

Penso che sia importante, quando scrivi, non giudicare i tuoi personaggi. Come dicevo prima, non dividere in modo manicheo il giusto dallo sbagliato, il chiaro dallo scuro, il cattivo dal buono. Credo che questa sia una delle grandi opportunità che il romanzo offre: raccontare, non dire, non giudicare. Quando scrivo, esco dalla mia testa e cerco di entrare nella testa di persone completamente diverse da me. Anche in quelle più nere e oscure. Soltanto così, io credo, si può raccontare un tema scabroso senza andare nel melò o nello stereotipo. Se poi ci sono riuscita o meno, può dirlo solo il lettore.

In che modo la scrittura può metabolizzare un fatto drammatico di cui siamo stati inconsapevoli testimoni come è accaduto a te?

La scrittura è un processo bellissimo e doloroso. Doloroso perché, sia che tu scriva di cose realmente accadute sia che inventi, devi scavare dentro di te per conoscere bene i personaggi che racconti. Bellissimo perché, rivelandoti anche parti di te di cui hai paura, o che odi, ti permette di trasfigurarle completamente tramutandole in narrazione. Per me affrontare questi demoni è stato difficile, spaventoso: ma mi ha aiutato anche a capirli davvero, a riconoscerli.

Erika Pucci

@erykaluna

“Questo giorno che incombe”, ultimo romanzo di Antonella Lattanzi edito da HarperCollins

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