Consuento appuntamento oggi con A Spasso con Galatea, la rubrica dedicata all’arte, alla cultura, alla storia e alle tradizioni della nostra Versilia, realizzata grazie a Stefania e Tessa del blog Galatea Versilia. Questa volta ci parlano della macchia della Versilia, della sua origine, arrivando fino ai giorni nostri con l’eccezionale maltempo che ha visto crollare, sotto il peso e la forza del vento, tanti di questi alberi

Dalla nascita alla distruzione della Macchia

 Il litorale dal Cinquale al Motrone alla fine del Settecento è costituito da una macchia ininterrotta di lecci con alle spalle una zona paludosa.

All’epoca si riteneva che i miasmi delle acque stagnanti fossero la causa delle febbri che colpivano gli abitanti della zona, solo nel 1880 la scienza ha scoperto che la malaria è in realtà causata dalla zanzara anòfele, che depone le uova nelle acque stagnanti. La bonifica è senz’altro una priorità per rendere la zona abitabile e si comincia a pensare al taglio della macchia come possibile soluzione al problema. Il granduca visita il territorio e si avvale del parere di esperti: alcuni sono favorevoli al taglio altri assolutamente contrari. Tra questi ultimi spicca il naturalista Targioni Tozzetti, che ritiene la macchia fondamentale per proteggere l’entroterra dalla malaria: gli alberi creano una sorta di barriera che impedisce ai venti marini di portare l’aria insalubre verso le città dell’entroterra.

Il 21 marzo 1770 il granduca emana un “motuproprio” con cui cede a livello la macchia dal Cinquale alla foce del Tonfano con possibilità di parziale taglio degli alberi. L’area viene suddivisa in ventidue poderi di 200 staia pietrasantine e si devono rispettare alcune regole. L’assegnazione dei poderi avviene tramite asta e la concessione dura fino alla sesta linea di discendenza. 100 staia possono essere “smacchiate” e ridotte a seminativo, in 50 staia verso mare deve essere preservata la macchia come riparo dai venti marini, e la parte tra la macchia e il mare è adibita a pascolo. Entro dieci anni dall’aggiudicazione all’asta è obbligatoria la costruzione di un edificio semplice a due piani, con il piano terra adibito a stalla e il piano superiore ad abitazione.
Come risulta da periodiche ispezioni le regole non vengono rispettate: la maggior parte degli assegnatari devasta la macchia lucrando sulla vendita del legname, e alla fine del Settecento solo una casa colonica è stata costruita.
Ai poderi all’epoca si accede attraverso una via che corre a monte delle case coloniche parallela al mare, e strade perpendicolari a questa delimitano il confine tra un podere e l’altro.

Rimane traccia sul nostro territorio di queste prime abitazioni, seppur parzialmente rimaneggiate

In via Nizza al numero 33 si percepisce bene l’antica struttura nonostante il recente ampliamento. L’arco a mattoncini di accesso alla stalla è ancora visibile al piano terreno, così come l’arco di accesso all’abitazione al piano superiore.

Una casa colonica meno rimaneggiata si trova all’interno della Versiliana, è detta il Casone e fino a una quindicina di anni fa ospitava un maneggio.

Nel corso dell’Ottocento il mare si era ritirato molto lasciando disponibili circa 60 metri di terreno arenoso. Nel 1828 si decide di concedere questa striscia di terra ai possessori dei poderi allivellati, i quali in cambio devono piantare una quantità di pini domestici tale da creare una barriera ininterrotta lungo il litorale a difesa dei venti marini.

Successivamente l’evoluzione del paese e lo sviluppo edilizio hanno portato alla progressiva riduzione della macchia. A testimonianza del passato rimane la Versiliana, corrispondente ai poderi 16, 17, 18 e 19 dell’allivellazione e acquisita nell’Ottocento dalla famiglia Digerini Nuti. Ancora oggi potrete sentire qualche fortemarmino chiamare la Versiliana la Macchia dei Nuti.

Brano tratto da: Tessa Nardini, Stefania Neri Torre di Venere; vita, morte e miracoli al Forte dei Marmi, Pacini, Pisa, 2014.

Oggi, ahimè, possiamo concludere dicendo che a testimonianza del passato non rimane più la Versiliana.

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