La festa nera” (Violetta Bellocchio, ed. Chiare Lettere 2018)

“Le immagini hanno tutto il potere. Niente voce fuori campo all’inizio. Punta la telecamera su una persona, non ti muovere, e stai tranquillo che presto o tardi ti racconta cose che non avrebbe mai pensato di dire a voce alta. Non esistono domande stupide. Lascia respirare le immagini. Rispetta lo spazio vuoto tra una parola e l’altra, perché tre secondi di silenzio, quando li metti su uno schermo, possono portare molto lontano. “

In un futuro apocalittico, tre reporter sopravvissuti “alla fine del mondo” ci portano alla scoperta de “la festa nera”. Misha (youtuber), Nicola (compagno di Misha e operatore) e Ali (io narrante e fonica), si sono affermati con Youtube grazie a servizi volti a scoprire l’insospettabile. Vittime di un prepotente shaming (la critica molesta e pubblica nei confronti di qualcuno, in particolare nell’ambiente virtuale) senza esclusione di colpi, ne portano addosso le ferite mentali. La loro credibilità è stata compromessa definitivamente. Dopo sei mesi tentano di rimettersi in gioco, andando a scovare comunità estremiste sorte intorno alla statale 45 fra Genova e Piacenza: uomini misogini, giovani post hipster , scuole pseudoo steineriane in cui si insegna l’uso delle armi e guaritori sono alcune fra le comunità in cui i tre reporter frugano con la loro telecamera, fino ad arrivare allo stadio più denso della sofferenza raccolta in queste comunità.

Il viaggio dei protagonisti snoda così la trama del romanzo attraverso le varie comunità che rappresentano dei veri e propri gironi danteschi in un’Italia dannata e verosimile.

Con la grande maestria che la contraddistingue, Violetta Bellocchio riesce a rendere la scrittura, vibrante e cinematografica molto più dei precedenti lavori, una cosa sola con la materia trattata.

Se nello scenario apocalittico che le parole ricalcano l’autrice mette in posa la realtà attuale all’ennesima potenza, al centro del romanzo c’è l’ambiziosa ambivalenza dei nostri tempi tra autopercezione del sé e reputazione pubblica. Gli emblemi della visione sono oggetti determinanti nel romanzo, ossia la predominanza del “come vediamo” al “cosa vediamo”: le lenti a contatto di Misha che riprendono in prima persona, Nicola che a sua volta riprende Misha, la narrazione di Ali di fatto offrono tre punti di vista diversi e necessari sulla tematica nel rapporto fra io e considerazione altrui. La scrittura della Bellocchio procede con il ritmo di una sceneggiatura: le pause, il ritmo spezzato, la scelta esatta delle parole, il lungo fluire indistinto di conversazioni e descrizioni, consentono al romanzo di sovraesporre i nodi nevralgici del racconto. Misha e Ali rappresentano due aspetti importanti della femminilità: Misha, la ragazza profondamente sola e messa pesantemente alla berlina sui social, e Ali, che cerca comunque una strada di salvezza con la coscienza e la consapevolezza che tutto quanto è esposto.

Cosa resta infatti tra i brandelli dell’informazione e del cannibalismo capace di azzerare ogni valore morale nella sfera etica sociale e personale? Resta il tentativo di Ali, quello di salvare la storia, di pensare al materiale e raccontarlo. Non c’è giudizio sulle due donne, e anche se il libro è pervaso di dolore, lo sguardo di chi racconta resta sempre umano, lontano da ogni cinismo.

L’autrice

Violette Bellocchio (Milano, 1977) ha esordito nel 2009 con “Sono io che me ne vado”. Il suo memoir “Il corpo non dimentica” (2014), ha confermato la scrittrice come una delle voci più interessanti e complessi della narrativa italiana contemporanea. Collabora con le riviste “Wired”, “Rolling Stones” e “Vanity Fair”.

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ultimo aggiornamento: 04-08-2018


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