Ad affrontare l’argomento del Ddl Pillon, sulla famiglia, per la rubrica “Pronto Avvocato”, è il legale viareggino Stefano Genick
“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita”.
Perchè- chiederà lecitamente il lettore- richiamare l’incipit del primo canto dell’Inferno della Divina Commedia all’esordio di un testo divulgativo di carattere latamente giuridico? Verrebbe da dire, a primo acchito, che il prologo dell’opera di Dante Alighieri c’entra “come il cavolo a merenda”.
Eppure, esiste un nesso, neppure troppo sottile, con la storia che mi appresto a raccontare, che se di divino non ha nulla, ha molto della commedia all’italiana.
D’un tratto, infatti, nel corso di questo sciagurata legislatura, il parlamento italiano “del popolo”, tale essendo non perchè eletto a suffragio universale da oltre settant’anni, ma perchè così lo ha definito il giovanotto noto più per l’uso allegro del congiuntivo che per l’ufficio pubblico che ricopre, ha ritenuto di occuparsi di una straordinaria emergenza che affligge il nostro paese: la disciplina dei procedimenti di separazione e divorzio!
Si è posto, dunque, il problema di individuare chi, tra i mille unti del popolo, potesse avere le migliori credenziali per occuparsi di questa difficile riforma? Ovviamente la scelta non poteva che cadere su un convinto assertore dell’indissolubilità del matrimonio: chi meglio di lui, infatti, poteva occuparsi di riformare l’iniqua disciplina della gestione della crisi coniugale?
Ecco, perciò, che il senatore Pillon, come Dante al cospetto dell’inferno, si è addentrato nella palude delle peccaminose leggi sulla “fine del matrimonio”; la guida di Virgilio, forse, lo avrebbe aiutato nell’espletamento dell’arduo compito ma, diversamente da costui, ha potuto contare soltanto sull’aiuto di altri unti dal popolo che, discepoli di un noto comico milionario, hanno dato alla tragedia il sapore della farsa!
Così, sotto l’abbagliante luce del “governo del popolo”, ha preso vita un testo riforma di ben ventidue articoli (se si eccettuano le disposizioni transitorie e quelle di invarianza finanziaria), strutturato su fallaci premesse, indimostrati assiomi e frasi dal sapore enfatico, il tutto recepito da precetti giuridici talora contraddittori gli uni con gli altri, talaltra trasudanti incostituzionalità.
Orbene, scendendo sinteticamente nel merito del provvedimento e rinviando per una più approfondita analisi alla disamina in un articolo che sarà pubblicato su Versilia Today prossimamente, tre sono i pilastri su cui si fonda la riforma: 1) degiurisdizionalizzazione e introduzione della mediazione obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti figli minori; 2) equilibrio tra figure genitoriali nella gestione della crisi coniugale e mantenimento diretto dei figli; 3) misure di contrasto all’alienazione parentale.
1) Degiurisdizionalizzazione e introduzione della mediazione obbligatoria per le questioni in cui siano coinvolti figli minori.
Il primo pilastro, compendiato nei primi otto articoli del disegno di legge, poggia sulla figura del “mediatore familiare”, il quale, iscritto ad un albo istituito ad hoc (art. 1 D.D.L.), dovrebbe aiutare i coniugi in lite a recuperare la propria naturale capacità di autoregolementarsi senza ricorrere al giudice ; ciò sul presupposto che “la famiglia è come un’isola che il mare del diritto può solo lambire” (citazione di Arturo Carlo Jemolo), onde, dimenticandosi che l’oggetto delle riforma è proprio la fase in cui in la famiglia si sta progressivamente sfaldando, il diritto e il giudice chiamato ad applicarlo dovrebbero restare alla porta.
La gestione della crisi coniugale, infatti, è rimessa alle sapienti mani del mediatore familiare, il cui interpello assurge a condizione di procedibilità del ricorso alla giurisdizione laddove siano coinvolti figli minori (art. 3, III comma, D.D.L.).
Poco importa, per il resto, se la crisi coniugale, magari giunta al culmine di una lunga situazione di conflittualità, renda estremamente difficile recuperare la serenità necessaria al raggiungimento di un accordo bonario. Cui prodest, inoltre, porsi il problema che proprio i figli minori, impotenti spettatori della crisi coniugale, debbano assistere, per almeno altri sei mesi (tale è la durata massima del procedimento di mediazione), al prolungamento di una situazione fonte di grave turbamento? A chi interessa, infine, se la crisi coniugale, come talora accade, è aggravata dal compimento di atti di violenza in danno di uno dei genitori o dei figli stessi?
Evidentemente a nessuno, tanto che la “regola aurea” della mediazione obbligatoria non contempla eccezioni di sorta e, così, il giudice, ove impropriamente interpellato, dovrà rinviare i coniugi di fronte al mediatore (art. 8, I comma, lett.b, D.D.L.), non potendo assumere neppure i provvedimenti urgenti nell’interesse della prole (secondo l’attuale formulazione dell’art. 708 c.p.c.); il coniuge, vittima di violenza, parimenti, dovrà confrontarsi, de visu, con il proprio aguzzino.
Tuttavia, neppure il parlamento del popolo, pur ispirato dalla sapiente guida del senatore Pillon, sfugge al controllo di costituzionalità delle sue leggi, che, non essendo prodotti dozzinali, dovrebbero costituire il frutto di studio e approfondimento e non di una fanatica isteria religiosa. Ed ecco che, difficilmente, le norme indicate potrebbero passare indenni alla censura della Consulta: plateale, infatti, è la violazione, ad opera dell’art. 3, III comma, D.D.L., dell’art. 117 cost. che, per il tramite dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul, ratificata con legge 77/2003, eccettua i casi di violenza intraconiugale dall’esperimento della mediazione obbligatoria; altrettanto vistosa, inoltre, appare la violazione, ad opera dell’art. 3, III comma. D.D.L., degli artt. 2 e 24 cost., che, riconoscendo effettività al diritto di difesa, impongono di dare risposte giurisdizionali sollecite a situazioni giuridiche il cui bisogno di tutela è connotato da urgenza (tale è il caso dei minori nelle more dei procedimenti di separazione e divorzio giudiziale).
2) Equilibrio tra figure genitoriali nella gestione della crisi coniugale e mantenimento diretto dei figli.
Il secondo pilastro della riforma, evocando una situazione (quella attuale) di squilibrio tra figure genitoriali nella gestione della crisi coniugale, si fonda, quale soluzione, sul principio del “collocamento paritario” del minore, onde quest’ultimo dovrà essere domiciliato presso l’abitazione di ciascuno dei genitori (art. 11, V comma, D.D.L.) e, parallelamente, dovrà frequentarli entrambi per tempi paritetici (art. 11, I comma, D.D.L.).
Questa regola, che sembra contemplare un obbligo in capo al minore, pretende, a ben vedere, di dare attuazione a un suo diritto, quello di mantenere rapporti continuativi con entrambi i genitori (si veda l’incipit dell’art. 11 D.D.L.).
Se così fosse, tuttavia, sarebbe lecito chiedersi che cosa succederebbe se proprio il minore rifiutasse di frequentare o, perlomeno, di frequentare assiduamente uno dei genitori.
Ebbene, non succederebbe proprio nulla. Infatti, il minore, che, pure, ove capace di discernimento, ha diritto ad essere ascoltato ai sensi dell’art. 337 octies c.c., intratterrebbe niente di diverso da una conversazione con un sordo, tale essendo il giudice vincolato da norme imperative di legge a ignorarne le richieste.
Soltanto nei casi eccezionali in cui tali richieste del minore siano motivate da un pericolo di pregiudizio psicofisico derivante da violenza o abuso sessuale del genitore, indisponibilità e trascuratezza di quest’ultimo o “inadeguatezza degli spazi di vita” (art. 11, II comma, D.D.L.), il giudice potrebbe prestarvi ascolto, avendo cura, però, di farsi supportare dall’esame clinico di un medico o di uno psichiatra.
Pertanto, per semplificare, il riformatore avoca a sé la valutazione dell’interesse del minore, identificandola astrattamente con la frequentazione paritaria di entrambi i genitori, e, non pago di questa plateale violazione del principio di separazione dei poteri, sottrae il giudice, per affidarlo ad ausiliari medici, quel residuo spazio di manovra che gli consentirebbe di dare rilievo alla situazione concreta sottoposta al suo esame.
Più che di una riforma del diritto di famiglia, dunque, il senatore Pillon, con questi pochi tratti di penna, traccia le basi di una vera e propria rivoluzione dell’ordinamento, cui accompagna, quale corollario, una completa rivisitazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi in sede di crisi.
A tale ultimo riguardo, rinviando per un più approfondito esame alla disamina di prossima pubblicazione, è sufficiente rilevare che l’istituto dell’assegno perequativo, destinato a coadiuvare il genitore più debole nel sostentamento del figlio, è superato da un meccanismo di mantenimento diretto, in cui le parti, di comune accordo o iussu iudicis, stabiliscono chi deve pagare che cosa (art. 11, VI comma, D.D.L.), il che, nelle situazioni connotate da particolare conflittualità, non potrà che condurre ad una moltiplicazione esponenziale del contenzioso, in barba alla decantata degiurisdizionalizzazione, non foss’altro perché da una singola ragione di credito (l’assegno perequativo) si passa a una moltitudine di ragioni di credito (i capitoli di spesa ripartiti tra le parti).
Parimenti, nella medesima ottica, il D.D.L. supera l’istituto dell’assegnazione della casa coniugale, che, salvo casi eccezionali in cui sarà comunque fissato un indennizzo parametrato ai canoni di locazione, resterà nell’esclusiva disponibilità del coniuge proprietario (art. 14 D.D.L.).
3) Misure di contrasto all’alienazione parentale.
Il terzo ed ultimo pilastro della riforma, che introduce una serie di misure a presidio del diritto dei figli di frequentare in misura paritetica entrambi i genitori, è compendiato nell’art. 17 D.D.L.
Questa disposizione, in buona sostanza, dice che se il figlio rifiuta di frequentare assiduamente uno dei genitori, la colpa è dell’altro che, presumibilmente, ne ha corrotto la volontà, denigrando gratuitamente il coniuge. Così, mentre il genitore “destinatario del rifiuto” potrà tranquillamento evitare di porsi domande sul comportamento del figlio, l’altro sarà onerato di una vera e propria probatio diabolica: dimostrare di non avere, in alcun modo, interferito con la scelta del minore.
Orbene, a prescindere dal fatto che resta ontologicamente misterioso come si possa offrire la prova di un fatto negativo (tanto più se il minore, che è l’unico che potrebbe chiarire le ragioni del proprio rifiuto, è reputato iuris et de iure inattendibile), è evidente l’impatto pratico che questa disposizione avrà una volta approvata: invitare il minore al silenzio, cosicché, nella logica del riformatore, qui tacet consentire videtur.
Diversamente, infatti, ove il minore decidesse di esternare liberamente il proprio rifiuto di frequentare un genitore, esporrebbe l’altro al rischio di vedersi limitata o, addirittura, sospesa la propria potestà (art. 18, I comma, D.D.L.) e, ciò che è peggio, rischierebbe egli stesso di vedersi collocato, nei casi migliori, presso il genitore inviso e, nei casi peggiori, in una casa famiglia (art. 18, II comma, D.D.L.).
E’, dunque, proprio il caso di dire che, con questa norma, il riformatore ha superato se stesso, declinando l’inferno dantesco in diritto positivo; discettarne della costituzionalità, peraltro, sarebbe irrispettoso (dei padri costituenti), restando il mero auspicio che questa brutta pagina di pornografia giuridica non trovi la consacrazione in un formale testo di legge.
Per ogni ulteriore informazione contattare: Avv.Stefano Genick
Studio Legale Romanini Genick
Via Leonida Repaci, 16
55049, Viareggio (LU)
Tel 0584 1660732
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