VIAREGGIO. “Non voglio dire di chi è la colpa, ma lo sanno. Ha fatto la stessa fine di Pierino Ghilarducci…”. Roberto De Leo, uno dei tanti maghi della cartapesta del Carnevale, sembra covare più rabbia che dolore per la morte del collega Floriano Marchi. “Era un grande amico, lo andavo a trovare spesso e lui passava da casa mia, con la sua inseparabile bicicletta.”

Carristi, mascheratisti e aiutanti vari si riparano dalla pioggia sotto le tettoie degli hangar dove prendono vita le loro costruzioni. Hanno lo sguardo torvo, fisso nel vuoto. Non una lacrima, non una parola. Il magazzino di Floriano che pullula di carabinieri e di familiari del mascheratista è una scena straziante, di quelle che non vorrebbero mai vedere. Non quando c’è di mezzo un tuo collega, uno con cui hai passato tanti inverni al freddo, tra barattoli di vernice e fili di ferro.

“Ecco cosa vuol dire retrocedere dalle mascherate di gruppo e ritrovarsi soli e abbandonati. Sei un disgraziato. E fai questa fine.” De Leo si sente quasi in colpa: nel 2004 ottenne la promozione tra le mascherate di gruppo, prendendo proprio il posto di Floriano. Che, stando ai suoi racconti, viveva di espedienti: “Fino a un mese fa abitava in un camping a Torre del Lago, poi è venuto qua, nel magazzino dove lavorava alle sue maschere isolate. Da solo, al freddo, con una gatta nera a fargli compagnia.

“Gli ho regalato un divano che non mi serviva più e qualche vestito. Mi ricordo di un piumino che indossava spesso: gli consigliai di portarlo a lavare e lui mi disse che gli piaceva così com’era, con questo stile ‘celtico’. Era un personaggio caratteristico del nostro Carnevale, come lo era Pierino. E a nessuno è mai venuto in mente di intitolare una piazza o una strada a figure del genere. La Fondazione Carnevale dovrebbe in qualche modo dare la possibilità a chi finisce tra le maschere isolate di realizzare qualche addobbo o lavoro sostitutivo. Giusto per non abbandonarlo al suo destino.”

Foto Marzia Etna

Marzia Etna ha gli occhi lucidi: i suoi ricordi legati a Floriano affondano le radici nelle vecchie baracche del tiravvolo, detto alla viareggina, tra il palazzetto dello sport e la piscina. “A volte lo rimproveravano per qualche parolaccia detta in presenza mia, tra le pochissime donne in un ambiente fatto di uomini. E lui diceva che se volevo fare questo lavoro dovevo abituarmici. Era un buono e diceva sempre quello che pensava: forse ha pagato a caro prezzo, più volte, questa sua schiettezza.”

Emilio Cinquini preferisce non parlare. Ma traccia un paragone con un’altra morte nel mondo del Carnevale, quella di Eros Canova, che se ne andò il 7 settembre 1986 proprio mentre lavorava nel suo hangar. “Mi sembra di rivivere quel momento.” Massimo Breschi lo ricorda così: “Era sincero. Forse un po’ rozzo. Ma diceva sempre la verità. Passava spesso da me. Non so che dire: ha fatto proprio una brutta fine.” E, come riassume Fabrizio Galli, “il Carnevale è fatto di gioie, ma anche di batoste.” E oggi quel meraviglioso microcosmo di genialità e maestria che è la Cittadella ne ha ricevuta una di quelle che fanno davvero male.

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